Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
DELLA VALLE CONTRO MARCHIONNE, SCONTRO INFINITO TRA EDITORIA E ALTA FINANZA
«Diego, ma chi sei? Charles Bronson, il giustiziere delle notte?».
Raccontano che Luca di Montezemolo, presidente Ferrari controllata dalla Fiat, abbia cercato di convincere l’amico Della Valle anche così.
Per frenare la sua ira contro «i furbetti cosmopoliti», i due italiani con accento straniero, Sergio Marchionne e John Elkann, che guidano la Fiat diventata americana. Lui, il provinciale, residente in quel di Casette d’Ete, terra di ciabattini, diventati imprenditori globali, contro quel che resta del capitalismo aristocratico sabaudo.
Che, persa la erre moscia, è rimasto con la voce roca, di chi dorme poco e fuma tanto, e che, al patron di Tod’s, dice: «Non mi rompere le scatole! ».
Questo non era mai successo.
Diego Della Valle gliel’ha giurata al «ragazzino» (John Elkann detto Jaki, erede degli Agnelli) che poi tanto ragazzino non è più essendo ormai passati 36 anni da quando nacque in quel di New York.
Se n’è andato sbattendo la porta dal patto di sindacato di Rcs, che controlla il Corriere della sera, proprio contro il «ragazzino» il «funzionario » (Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca), e da allora ha cominciato a comprare azioni fino all’8,7 per cento di quel che continua ad essere l’incrocio strategico di chi in Italia vuole il potere.
Magari con i soldi degli altri o prendendo ordine da altri.
Della Valle, invece, ci mette i suoi soldi e vuole comandare.
Capitalismo autentico, vecchio stile: idee, progetti, investimenti, rischio.
Pochi debiti. E anche molto paternalismo: con i sindacati non tratta ma per i suoi dipendenti fissa i premi e mette polizze sanitarie e buoni libri nella busta paga.
Anche lui, come Marchionne, continua a pagare un dipendente, reintegrato dal giudice dopo un licenziamento, senza farlo lavorare.
Questo è quel poco che li accomuna.
Capitalismo glocal da quasi un miliardo di ricavi, quello di Della Valle.
«Io sono un privilegiato e posso dire quel che penso e parlo come sono abituato a fare. Non è elegante? Chiedete agli operai di Termini Imerese se è elegante la lettera che hanno ricevuto prima della chiusura della fabbrica. Non si può scaricare sul paese le proprie responsabilità ».
Lo dice pubblicamente alla Bocconi, lo ripete nelle sue conversazioni private.
Della Valle «arruffapopolo », commenta Lupo Rattazzi, consigliere di Exor (finanziaria della famiglia Agnelli), figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’Avvocato. «Perchè – aggiunge Rattazzi – non c’è nulla di più disdicevole di un industriale miliardario che l’arruffapopolo e che alza il livello dei decibel per segnare punti ed avere titoli sui giornali».
Il patron delle Tod’s non assolderebbe mai un manager come Marchionne.
E questo non andrebbe mai a produrre borse e mocassini per quanto con i pallini e per quanto ne sia un utilizzatore.
Quasi ne ha disprezzo.
Dice l’italo-americano con maglione Tommy Hilfiger ma senza etichetta: «Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango».
Baruffe capitaliste con linguaggio da talk show. Se avesse potuto, Diego Della Valle avrebbe replicato in diretta: «Si vede… », garantiscono i suoi più stretti collaboratori.
Il talk show, dunque. Il botta e risposta, come si fa lungo il Transatlantico di Montecitorio tra politicanti perditempo.
Il format, come avrebbe detto Edmondo Berselli, ha conquistato anche la nostra presunta borghesia industriale.
«Questa è una vera novità », osserva Giuseppe Berta, storico dell’industria e soprattutto della Fiat. Scontro, ma senza un campo di gioco possibile: l’uno ha deciso di andare all’estero per salvare l’azienda (almeno così sostiene); l’altro sta ancorato a un territorio per conquistare quote di mercato all’estero.
Per Marchionne il “made in Italy” è un handicap; per Della Valle è la rampa di lancio, il valore aggiunto.
Ma mentre Della Valle annuncia di aver preso la coppia Elkann-Marchionne «con le mani nella marmellata » dove sono gli altri capitalisti italiani? Con chi stanno? Per chi tifano nel talk show tra industriali?
La Confindustria, un tempo lobby potente con l’ambizione di dettare l’agenda alla politica e il vezzo di dare lezioni a tutta la classe dirigente tranne che a sè, tace. Giorgio Squinzi preferisce l’afasia alle gaffe con cui si era insediato al settimo piano di Viale dell’Astronomia. Silenzio.
Anche perchè Marchionne, che curiosamente parlava all’Unione industriale di Torino, si è liberato dai “lacci e lacciuoli” (certo Guido Carli coniò questa formula pensando a ben altro) della burocrazia confindustriale, dei contratti nazionali e dei sindacati conflittuali. Silenzio che è parte della decadenza confindustriale.
Che ora presta i suoi past president (Montezemolo e Emma Marcegaglia) per coprire i vuoti della politica che verrà .
Anche questo non era mai successo.
Non resta che l’ultima battuta.
Quella che qualcuno ha sentito pronunciare a Della Valle: «È ora che Marchionne si rimetta la giacca. La “prova maglione” non l’ha superata. Il maglione lo lasci a Steve Jobs che si inventò Apple».
Alla prossima puntata.
Il format continua.
Roberto Mania
(da “La Repubblica“)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
DUE CANDIDATI ALLE PRIMARIE CHE NON SONO D’ACCORDO SU NULLA
Da una parte c’è Matteo Renzi che col suo camper marcia su Roma, prima a Porta a Porta per l’intervista di rito, poi all’auditorium della Conciliazione: «1700 posti», fanno sapere solerti i suoi.
Sala piena.
Dall’altra, Pier Luigi Bersani fissa per il 13 ottobre la firma del patto con i progressisti (socialisti e Sel), e chiude la giornata a Sesto San Giovanni, davanti a striscioni che lo invocano «premier subito»
Il duello a distanza continua.
E Renzi mena fendenti: «Rosy Bindi? Incoerente. Veltroni e D’Alema? Dei sussurratori, degli inciuciatori. Tutti imbullonati da 25 anni alle sedie del Parlamento».
Il sindaco ricorda quando nel ’94 la presidente Pd faceva la battaglia nel Ppi contro De Mita, già a tre mandati in Parlamento.
O quando D’Alema e Veltroni «decisero di far fuori Natta e Occhetto». E chiede: «È meglio uno che fa inciuci o uno che lo dice chiaramente?».
Parla di Monti, anche. «Dopo aver salvato l’Italia non farà certo il ministro in un governo. Mi sembra chiaro che sia destinato a un ruolo più alto nelle istituzioni italiane o europee».
Tradotto, al Quirinale o a presiedere la commissione a Bruxelles.
Poi, fa indispettire più di quanto già non fossero gli ex popolari del Pd: «Chi vince fa il programma», dice chiaro. Insorgono sia Fioroni che Rosy Bindi.
La presidente lo invita a documentarsi quando parla di lei (nega la storia di De Mita e i tre mandati) e attacca: «A Renzi ricordo che queste non sono primarie di partito. Anche se dovesse vincere, non sarà lui a decidere in casa Pd».
Altolà , quindi.
Davanti al quale il sindaco non si ferma, tanto da tracciare una strada tutta sua anche per le alleanze.
«Io vado alle primarie con una serie di punti specifici, ad esempio difendo la riforma delle pensioni. Se c’è chi la mette in discussione sarebbe automaticamente fuori dalla coalizione. A Firenze governo bene con Sel, ma con il giudizio sul governo Monti le strade sono divergenti». Probabilmente è a questo che pensa Massimo D’Alema, quando a Otto e mezzo sostiene senza mezze misure che «se vince Renzi non ci sarà più il centrosinistra».
E aggiunge: «Sento in continuazione insulti e risse. Dopo le risse non è facile ricomporre l’unità di un partito e di una coalizione, è uno dei motivi per cui appoggio Bersani».
Ed è a questo che dovrà pensare anche il segretario, visto che l’annuncio del d-day del patto dei riformisti per il 13 ottobre con Nencini e Vendola ha suscitato una fredda presa di distanze di Sel.
«Stupisce davvero che fonti anonime del Pd annuncino pomposamente un evento in cui si firmerà il Patto dei Progressisti tra Pd, Psi e Sel, quando ancora non sono chiari il percorso per le primarie, il quadro delle alleanze e i contenuti di un’alternativa di governo».
Quanto ad Antonio Di Pietro, è l’unica cosa su cui Bersani e Renzi vanno d’accordo.
«Non dirò agli italiani che è scoppiata la pace – dice il segretario – da mesi il leader Idv semina posizioni polemiche non solo nei confronti del Pd, ma anche di punti essenziali di equilibrio a cominciare dal presidente della Repubblica. Per noi non è accettabile».
E Renzi: «Deve decidere lui. Mi pare che si stia levando di mezzo da solo. È difficile non dare ragione a Bersani».
Annalisa Cuzzocrea
(da “La Repubblica”)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
RIFIUTATA LA TRATTATIVA CON IL MAGISTRATO CHE LO HA QUERELATO PER DIFFAMAZIONE… ATTESA PER DOMANI LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Domani la sentenza della Cassazione che si esprimerà , senza entrare nel merito, sulla condanna.
E oggi, in un editoriale, il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, dichiara di non voler concludere alcuna trattativa con il giudice torinese Giuseppe Cocilovo che lo ha accusato di diffamazione.
”Ho dato disposizione ai miei avvocati — ha dichiarato — di non chiudere l’ipotesi di accordo con il magistrato che mi ha querelato per un articolo neppure scritto da me e che ha ottenuto da un suo collega giudice la condanna nei miei confronti a un anno e due mesi di carcere”.
“Il signore voleva altri soldi — prosegue il giornalista — oltre i trentamila euro già ottenuti, in cambio del ritiro della querela e quindi della mia libertà . Io penso, l’ho già scritto, che le libertà fondamentali non si scambino tra privati come fossero figurine ma debbano essere tutelate dallo Stato attraverso i suoi organi legislativi e giudiziari. Anche perchè nel caso specifico c’è un’aggravante, e cioè che a essere disposto a trarre beneficio personale dal baratto è un magistrato”.
Sallusti polemizza su un particolare della vicenda: “In primo grado sono stato condannato a cinquemila euro di multa più diecimila di risarcimento, nonostante l’accusa avesse chiesto per me due anni di carcere. Al momento di stendere le motivazioni della sentenza, il pm si pente: ho sbagliato a non dare a Sallusti anche una pena detentiva, scrive nero su bianco, ma ormai è fatta. Che cosa è intervenuto tra la sentenza e la stesura delle motivazioni? Non è che per caso qualcuno ha privatamente protestato per la mitezza della condanna, che a mio avviso era invece più che equa, non avendo io diffamato nessuno?”.
Sul caso è intervenuto il governo: pochi giorni fa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e ieri il ministro della Giustizia Paola Severino.
Il guardasigilli ha affermato al Giornale di seguire “con grandissima attenzione la vicenda”.
“Ho avuto contatti con l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi e la prossima settimana parteciperò a un’iniziativa su questo tema, per affrontare con la massima serietà e urgenza possibile un problema avvertito come fondamentale: quello della regolamentazione del complesso rapporto tra liberta di stampa e tutela della reputazione di chi sporge querela per diffamazione. In particolare con riferimento alla figura del direttore responsabile e alla questione dell’omesso controllo, cosi com’è configurato dal nostro codice”.
La strada che il ministro indica, si legge sul Giornale, è quella della modifica della legge in tempi brevi.
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
MASSIMO FINI: “NIENTE CASTA PER I GIORNALISTI, LA LEGGE DEVE ESSERE UGUALE PER TUTTI”
Non sono per niente d’accordo con l’articolo di Marco Travaglio in cui il vicedirettore del Fatto ritiene ingiusto, e quasi obbrobrioso, che il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, rischi di scontare un anno e due mesi di carcere in seguito a una condanna che la Corte d’appello di Milano gli ha inflitto per aver diffamato, su Libero, un giudice tutelare di Torino.
Si tratta di una difesa corporativa.
Noi giornalisti siamo una corporazione, attenti, come ogni altra corporazione, a mantenere i nostri privilegi (in oltre sessant’anni di vita repubblicana un solo giornalista, che io ricordi, ha scontato effettivamente il carcere: Giovannino Guareschi che aveva diffamato il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi).
A differenza di Travaglio io considero Sallusti un ottimo professionista, lo stimo come tale e ne sono ricambiato tant’è che più volte, e ancora pochi mesi fa, mi ha proposto di andare a lavorare per i giornali che dirige (ma io non posso, non ho la disinvoltura dei Santoro e dei D’Alema).
Ma qui non è in discussione se Sallusti sia o meno un ottimo collega, sono in gioco questioni di principio come dice lo stesso Travaglio (“ciò che conta è il principio”).
E questa volta Travaglio, in genere così lucido e incisivo, si ingarbuglia in un articolo insolitamente faticoso e contorto.
Prima scrive che il carcere dovrebbe essere riservato ai delitti dolosi, poi che “in tutti i Paesi civili nessun giornalista può rischiare in prima battuta il carcere per quello che scrive… neanche se è intenzionalmente diffamatorio”.
Il diffamato, secondo Travaglio, dovrebbe accontentarsi della rettifica, solo se questa non c’è potrebbe adire le vie legali, penali e civili.
Il fatto è che il nostro Codice penale non fa distinzione fra diffamazione dolosa e colposa e non prevede che la rettifica sia esaustiva.
Se la Cassazione confermerà la sentenza della Corte d’appello Sallusti deve andare in carcere, come qualunque altro cittadino che sia nelle sue stesse condizioni.
Che la legge debba essere “uguale per tutti” è proprio una battaglia del Fatto, quasi la sua ragione sociale, e non possiamo sconfessarla perchè oggi nei guai è un nostro collega, simpatico o antipatico che sia.
Noi giornalisti non siamo cittadini speciali, killer con la “licenza di uccidere” come gli agenti della Cia.
Dobbiamo rispondere di ciò che scriviamo.
Io, che ho qualche anno più di Travaglio, ho assistito a troppi massacri perpetrati dalla stampa, con conseguenze tragiche, prima che “lorsignori”, con Mani Pulite, scoprissero improvvisamente, e del tutto strumentalmente, il “garantismo”.
Cito, per tutte, la vicenda, del 1969, di Adolfo Meciani, implicato nel “caso Lavorini”, che si uccise, innocente, in carcere impiccandosi a un lenzuolo.
Un autentico omicidio di stampa.
Questo de iure condito come suol dirsi.
De iure condendo si possono e si debbono fare delle riforme sulla questione della diffamazione a mezzo stampa
1) Un tempo, quando le persone avevano più a cuore il proprio onore che i quattrini, si querelava “con ampia facoltà di prova”.
Se il giornalista dimostrava di aver scritto il vero era a posto.
La “facoltà di prova” dovrebbe essere resa obbligatoria in ogni procedimento penale per diffamazione.
2) Dovrebbero essere inibite le azioni civili di danno prima della querela penale. Perchè nell’azione civile quel che conta, più della verità dei fatti, è il danno e anche un ladro può essere danneggiato se viene definito ladro “in termini non continenti”.
La definizione è talmente generica e vaga che il giornalista viaggia col freno a mano tirato.
Se io attraverso col rosso so di aver commesso un’infrazione. Se uccido un uomo so che è un omicidio. Ma quali sono i termini non continenti?
3) Ha ragione Travaglio quando scrive che i politici inondano i giornalisti con azioni penali e civili per diffamazione con richieste milionarie di risarcimento che sono chiaramente intimidatorie.
Se un presunto diffamato perde la causa dovrebbe essere obbligato a pagare una penale proporzionata alla sua richiesta. Così ci penserebbe due volte.
Il corporativismo dei giornalisti è anche una delle cause per cui non si riesce a risolvere l’annosa questione delle intercettazioni.
Qui sono in gioco tre interessi contrastanti.
1) L’interesse all’efficacia delle indagini e quindi a una efficiente amministrazione della Giustizia.
2) L’interesse del cittadino, coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento pena-le, a non veder lesa anzitempo la propria reputazione.
3) L’interesse del giornalista a informare e, soprattutto, quello della comunità a essere informata.
Sappiamo benissimo che i berlusconiani (e non solo loro) vorrebbero limitare al massimo le intercettazioni perchè hanno la coda di paglia.
Non è questa la strada.
Oggi per i reati associativi, soprattutto quelli finanziari, in una società complessa come l’attuale, le intercettazioni, telefoniche e ambientali, sono uno strumento indispensabile e la magistratura deve poterlo utilizzare, anche a tappeto.
Degli altri due interessi in gioco, nella fase istruttoria deve prevalere quello della difesa dell’onorabilità delle persone, perchè nella fase delle indagini preliminari, inevitabilmente incerta, a tentoni, possono essere coinvolte, con dettagli scabrosi sulla loro vita privata ma del tutto irrilevanti, persone che risulteranno poi estranee al procedimento in corso e che hanno il sacrosanto diritto alla tutela della loro privacy. Al dibattimento il discorso si capovolge: l’interesse della comunità a essere informata prevale su quello della tutela dell’onorabilità degli indagati e anche dei comprimari, perchè in quella fase arrivano solo i materiali effettivamente utili al processo.
Questo (istruttoria segreta, dibattimento pubblico) era il sistema del Codice penale di Alfredo Rocco che sarà stato anche un fascista, ma era un giurista di primissimo ordine.
Oggi siamo in mano a dei dilettanti allo sbaraglio e, quasi sempre, anche in malafede.
Massimo Fini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
L’IRA DI BERLSCONI… I BIG TERRORIZZATI DAL POSSIBILE EFFETTO A CATENA SULLE REGIONI
Dopo il terremoto Lazio, l’effetto tsunami spazza via quel che resta del Pdl.
Silvio Berlusconi è il primo a rendersene conto nelle ore che hanno funestato il suo lunedì nero. «Qui crolla tutto, rischiamo di passare per il partito dei ladri e del marcio, di finire sotto le macerie. Vanno cacciati tutti, si cambia, e stavolta come dico io: volti e nomi nuovi ovunque. Il Popolo della libertà non esiste più».
Il vento dell’antipolitica che minaccia di spazzare via loro, prima e più degli altri, è l’incubo che lo attanaglia.
Amareggiato, avvilito, furibondo, a metà strada tra la voglia d i mollare tutto e la consapevolezza che senza di lui tutto finisce a picco.
Il Cavaliere ha assistito dal ritiro di Arcore alla porta in faccia sbattuta dalla governatrice dimissionaria.
Nell’ultima, breve telefonata con la Polverini non ha nemmeno tentato di convincerla, «la situazione era chiara già dall’incontro con Monti della sera precedente» spiega il portavoce Paolo Bonaiuti.
Nelle stesse ore che hanno preceduto le dimissioni, la fidata Alessandra Ghisleri consegnava gli ultimi rilevamenti settimanali aggiornati alla luce degli scandali più recenti: relegano il Pdl di nuovo, pur se di poco, al di sotto del 20 per cento.
È il preludio della deflagrazione.
Gli ex An La Russa e Gasparri e il drappello di parlamentari che li seguono sono a questo punto ancor più col piede fuori dal partito.
Pronti semmai a federarsi con la nuova creatura politica alla quale Berlusconi darà vita.
Da qui a qualche settimana, «comunque prima delle elezioni siciliane del 28 ottobre» racconta chi ha parlato con lui quando è apparso chiaro l’esito della partita a Roma.
Il partito non esiste già più e del suo establishment resterà poco.
«Non sono riusciti a evitare questo disastro, sono buoni solo a litigare tra loro, senza di me sono finiti» tuona il leader di un Pdl in cui le frane sono ormai molteplici.
In cui anche un fedelissimo come Franco Frattini, nel pieno del caos, si può sbilanciare fino a definire «vergognosa» la candidatura di Nicole Minetti.
In questo quadro, per dirla con Daniela Santanchè, «le dimissioni sono solo l’inizio».
Di qualcosa di nuovo ma anche del probabile tracollo a catena.
La Lombardia di un Roberto Formigoni sotto inchiesta e in balia degli scandali è la prima della lista.
Ma poi la Campania di Caldoro, la Calabria di Scopelliti, se i casi di malapolitica e le inchieste incalzeranno.
Proprio quello che Berlusconi vorrebbe scongiurare. Ma tutto appare terribilmente precario, visto da Palazzo Grazioli dove oggi il capo terrà un mega vertice con coordinatori e capigruppo regionali del partito.
Domani l’ufficio di presidenza per avviare la «rivoluzione». L’ennesima.
«La gente si sente impotente, i due o tre punti che può aver perso il Pdl, come il Pd, sono finiti nel bacino degli indecisi» racconta Alessandra Ghisleri di Euromedia. È su di loro che punta Berlusconi perchè, fa notare la sondaggista, «c’è la necessità di costruire un sistema nuovo».
Che intanto dovrà ripartire dalle macerie del Lazio, dove il simbolo del Pdl è associato ormai a “Batman” e ai toga-party.
Dai toni drammatici l’incontro tra la Polverini e i big del partito a Montecitorio, a ora di pranzo. Angelino Alfano, Fabrizio Cicchitto, c’è anche Gianni Letta.
«Non puoi lasciare – le intima a muso duro il segretario– così rischiamo di portare alle dimissioni anche le giunte in Campania, in Calabria. Tra sei mesi si vota, se perdiamo Lazio e Lombardia sprofondiamo». Ma sono argomenti che non toccano ormai la ex governatrice. «Avrei dovuto farlo quattro giorni fa, non ho nulla a che fare con quei ladri».
Lascia, allora, ma non abbandona la politica la Polverini sempre più vicina all’Udc di Casini, unico partito che ringrazierà nella conferenza stampa d’addio.
È proprio il leader centrista a convincerla a compiere il passo, incontrandola con Cesa e il capogruppo regionale Ciocchetti, silenti al suo fianco: «Se andassi avanti, lo faresti coi nostri consiglieri dissidenti, non so quanto ti convenga».
È con i centristi che sogna di ripartire l’ex sindacalista Ugl, per ritentare una nuova, ormai improbabile scalata alla Regione.
Più scontato per lei un seggio a Montecitorio.
Non fosse altro perchè da parte degli Udc e dell’ala cattolica del Pd è già partito un forte pressing sul ministro Andrea Riccardi.
Ipotesi che il fondatore della Comunità di Sant’Egidio esclude dichiarandosi «indisponibile, come per il Comune di Roma».
Per il momento, dicono dal Pd come dal fronte centrista già al lavoro.
È notte fonda, invece, nel centrodestra dove Berlusconi pensa a stravolgere le carte e a nomi fuori dalla politica, «alla Luisa Todini», giovane consigliere Rai.
Ma per adesso il Pdl conta solo i danni.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
TUTTI EX UGL I FEDELISSIMI DELL’EX GOVERNATRICE PIAZZATI NELLA BUROCRAZIA REGIONALE… IL SEGRETARIO GENERALE DELLA GIUNTA RONGHI NON HA LA LAUREA NECESSARIA PER IL POSTO OCCUPATO
Dimessa la Polverini, il “cerchio magico” dei suoi più stretti e fidati collaboratori – ex sindacalisti Ugl piazzati ai vertici regionali – resta.
Con qualche dubbio, però, sulla legittimità dei loro titoli.
È il caso del segretario generale della Giunta, Salvatore Ronghi, del capo ufficio gabinetto del presidente regionale, Giovanni Zoroddu, e del direttore della direzione regionale personale, demanio e patrimonio, Raffaele Marra.
Sui primi due c’è il sospetto – sollevato peraltro da un’interrogazione dalla consigliera idv Giulia Rodano – che non abbiano i titoli.
La nomina del terzo è stata addirittura annullata due volte dal Tar.
Nonostante la Regione Lazio abbia recepito la legge Brunetta che prevede la pubblicazione online dei curricula dei dirigenti, sul sito del massimo dirigente regionale, Ronghi appunto (quello che dovrebbe dare il buon esempio), si legge “curriculum vitae non disponibile”.
Leggendolo (Repubblica ne è entrata in possesso), si capisce, forse, il motivo di tanta riservatezza: Ronghi (190 mila euro l’anno, dipendente dell’azienda trasporti di Napoli), non possiede i requisiti previsti dall’articolo 10 del regolamento regionale 1/2002. Non è laureato, ha la “maturità tecnico commerciale”.
Non ha mai fatto il dirigente nel pubblico o nel privato, ad eccezione di una esperienza da dirigente, quando aveva appena 20 anni, nella società “Ro. An. di Melito” di cui non c’è traccia da nessuna parte.
Gli altri suoi titoli sono una lunga militanza nel sindacato Cisnal e Ugl (quello della Polverini), e tre mandati da consigliere regionale in Campania.
Inutile dire che sindacato e consiglio regionale non sono nè pubblica amministrazione, nè settore privato.
Alla Regione Lazio è stata assunta anche la sua fidanzata, Gabriella Peluso, 120mila euro l’anno. “Di lei – ha spiegato Ronghi – ho piena fiducia”.
Discorso simile riguarda Zoroddu: lui è laureato, ma non presenta alcuna esperienza da dirigente, a parte, ovviamente, la carriera Cisnal-Ugl dal 1994.
Per Marra, ex ufficiale della gdf, ex capo dipartimento casa della giunta Alemanno, il discorso è più complesso.
Nonostante quattro lauree e un curriculum di 12 pagine, secondo la commissione che ha esaminato i titoli dei 22 candidati esterni (i 180 dirigenti regionali erano stati messi fuori gioco da un cavillo del bando), quindici candidati avevano requisiti migliori. Marra non aveva alcuna “capacità specifica relativa alle competenze proprie della struttura da assegnare” (direzione Personale), come “l’esperienza di gestione delle risorse umane”.
Il Tar ha annullato due volte la sua nomina, ma la Polverini l’ha nominato direttore in regime di prorogatio fino a domani.
Alberto Custodero
(da “La Repubblica“)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
DAL PICCOLO SINDACATO AL MIRACOLO ELETTORALE
Più che dimettersi, Renata Polverini si è consumata nell’incendio del suo potere e quindi anche a causa del fuoco alimentato dal suo stesso personaggio.
Perchè la politica mediatica vive di fiamme e di fumo – con il che un’intera classe dirigente appare in via soffocamento e carbonizzazione.
Così adesso è quasi inutile sforzarsi di riconoscere nella cenere ciò che aveva fatto di lei, ex ragazza della Magliana, Cenerentola di un sindacatino quasi inesistente, poi principessa dei talk-show, la Regina del Lazio.
E per giunta dopo una specie di miracolo elettorale, «perchè i miracoli sono possibili» annunciava lei e il gruppo cattolico tradizionalista di Lepanto, sulla scorta di un fervido rosario anti-Bonino, aveva addirittura individuato nella Madonna del pozzo di Sant’Andrea delle Fratte la sacra icona della vittoria polveriniana.
Chissà oggi a quale (ulteriore) Madonna si potrebbe far risalire la responsabilità di queste dimissioni che di colpo oscurano le obiettive virtù della ex governatrice: simpatia, cioè spontaneità comunicativa, ed energia, cuore, prodigiosa attitudine a farsi sentire «con te» (il suo slogan) a figurare una del popolo, l’«una come tutti» dei manuali di marketing applicato alla corsa elettorale.
Che corsa! Ma quanto terribilmente invecchiati ora, quei ricordi: lei che a Corviale indossa i guantoni da boxe, lei sulla biga elettrica, lei sotto un enorme crocifisso, lei che durante un comizio a un certo punto si era tolta la maglietta per indossarne una di propaganda, restando con il body, tra gli applausi.
Una sera Berlusconi, che non sempre è un signore, le disse in pubblico qualcosa del tipo: «Ma lo sai che non sei male?».
Polverini anche allora piaceva parecchio alla sinistra, ma almeno alle donne di quella parte dispiacque che al comizio di chiusura fosse rimasta in silenzio quando il Cavaliere le aveva tributato il solito numeraccio sullo jus primae noctis, e insomma: che cosa non si fa per farsi votare!
Polverini era in effetti una creatura di Fini, che però al momento della verità se ne era del tutto disinteressato; al contrario di Berlusconi, che adora forgiare le vite delle persone che gli sono simpatiche.
Ecco, la ragioniera Polverini, entrata alla Cisnal come centralinista e nel giro di quattro-cinque anni divenuta segretaria generale, era senza dubbio una di queste persone, e perciò si era generosamente speso per lei, fino a farla vincere.
Come in altre occasioni, l’esito sembrava una favola.
«Quando la mattina mi guardo allo specchio per pettinarmi confessava lei – mi guardo e dico: sei la presidente del Lazio! ».
E aggiungeva, almeno nella versione ufficiale: «Non ci si crede!».
La lectio più autentica sarebbe: «Non ce se po’ crede!». Polverini infatti, oltre a praticare una certa modestia allora solo in parte auto-promozionale, non sorveglia il suo accento, anche ieri gli è scappato «mejo», «vojo» e anche «sordi».
E’ parte della sua autenticità .
Ma da che mondo è mondo, gli specchi sono molto pericolosi.
Perchè l’auto-riflessione richiede costosi parrucchieri, vestiti di lusso, espressioni non sempre sincere e soprattutto aiutano a montarsi la testa.
E poi, come ampiamente capito da chi non coltiva la vanità , una cosa è vincere le elezioni, altra cosa è governare.
E qui, proprio qui, esattamente qui cadde l’asinello di Poverini che invece, figlia di questo tempo di apparenze, pensava che l’amministrazione coincidesse con la bella figura, la bella immagine, il protagonismo, la visibilità , gli abitucci sempre più pensati, i ristoranti alla moda, i servi, pure alla moda, i salotti, la prima al cinema e al teatro, il festival, il red carpet, la festa, la mondanità , il Cafonal e via dicendo.
Intanto la sanità , che dipende dalla regione, faceva sempre più pietà , per non dire schifo; e le cose serie dell’amministrazione, quelle noiose e complicate da spiegare, rimanevano lì, anzi peggioravano, come il bilancio; e i politicanti del Pdl scalpitavano; e lei furbamente, vista la malaparata di Berlusconi, si rendeva autonoma, arruolava gente, si faceva la fondazione e per festeggiare il primo anno – che francamente è un po’ poco – prenotava Villa Miani per una gran festa.
A ripensarci nel giorno in cui baldanzosamente e con la dovuta claque ha reso noto di sentire il suo incarico come una gabbia, si è colti da un potente scetticismo dinanzi a questa pretesa liberazione.
Il sospetto, per dirla tutta, è che nel gioco demoniaco del potere lei ci fosse caduta con tutte le scarpe, come si dice; e che per far scintillare ancora di più la sua figura nemmeno aveva dovuto mettere da parte il suo carattere, le sue debolezze, le sue passioni: Hitchcock, la carbonara, il solito Battisti, i giubbotti un po’ coatti, i piedi gonfi, le salvifiche ciavatte, l’amore grandissimo per la madre, la gomma americana.
Solo che quando doveva togliersela di bocca per andare incontro alle telecamere, c’era una assistente della governatrice che apriva il palmo della mano e, tìc, la buttava dentro il cestino.
E così piano piano, anzi forte forte, continuava a stagliarsi sulla scena pubblica un indefesso, costrittivo, forse inevitabile e straniante espressionismo.
Alla festona di Ulisse, sia pure in borghese, e alla Via Crucis di Lourdes, con l’imitatrice alla mensa regionale, nelle pubblicità istituzionali sugli autobus, dentro presepe napoletano, al Gay village, con i sorcini di Renato Zero, nelle baracche di Auschwitz, leggerezza e piombo, primavera e neve, allegria e dramma, la Todini e i piccoli rom, insomma tutto e il contrario di tutto pur di esserci, figurare, farsi accettare come governante capace, fattiva, di cuore.
Il punto è che nel carnevale elettorale il «popolo» si beve quasi tutto, ma poi gli utenti molto meno, anzi per niente, e se la crisi economica comincia davvero a mordere ecco che il regime del «personaggismo» prima suscita nausea, poi rabbia, poi ti saluto e buonanotte al secchio.
E se tanto tanto i cittadini del Lazio erano disposti a comprendere che la loro presidentessa aiutava Califano in difficoltà , beh, quando la videro che con entusiasmo degno di ben altra causa si precipitava a imboccare Bossi, e a sua volta essere imboccata; quando seppero che trovava il tempo di salpare con i «Tevere rangers» («Salutatemi i tunisini!»), o la videro raggiungere in elicottero Rieti, «cuore piccante d’Italia», o lessero che Polverini aveva vietato Facebbok agli impiegati della regione, beh, è ovvio che si andavano allineando tutte le condizioni per sperare che si levasse al più presto di torno, quella lì seguitava a farsi bella in televisione.
Così va il mondo, non solo in politica.
Il potere è una bestiaccia che ti fa pure ammalare.
Un giorno tentarono di entrarle in casa; poi ci riprovarono. Un altro giorno arrivò in ufficio e scoprì che le avevano messo tre pulci e una micro-telecamera.
Hai voglia a proclamarsi «Meglio bulla che nulla»; hai voglia a fare la bulla nei comizi con le «zecche» che dovevano farsi «una cazzo di ragione » della democrazia.
Tutto in realtà si faceva scivoloso, avvolgente, scuro, crudele.
Era la vendetta dell’immagine, dei lustrini, della forma, dei salottini tv.
Il telepopulismo che prendeva a puzzare di bruciato, l’autombustione del sistema degli spettacoli e di una classe dirigente che nemmeno si accorge di aver preso fuoco.
E tra il fumo e la cenere non c’è più nemmeno da rovistare, perchè di perle non ce n’è più, anzi forse nemmeno ce ne sono mai state.
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica”)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
“HO PIU’ SOLDI DI ALTRI, UN’INGIUSTIZIA”
Non cerca nemmeno di negare (non può).
Ma invece di tacere esterna di continuo tra accuse, mezzi pentimenti e strafottenza
Un po’ è la maschera contemporanea della cafonaggine bipartisan, del latrocinio eretto a sistema, dello sbafo divenuto stile di vita.
Un po’ è l’ultimo frutto di quel rimasuglio di fascismo che trova sempre concime («Il mio vero soprannome non è Er Batman. Me chiamano Er Federale. Er Federale de Anagni»).
Ma Francone Fiorito è anche l’ultima versione di una figura eterna della vita italiana, un tempo confinata nell’avanspettacolo e oggi tracimata nella politica: l’Impunito
La linea la dà l’avvocato Taormina: «Fiorito è il meno peggio».
Il suo assistito non nega gli addebiti. Si trincera dietro una formula studiata ad arte: «Se ho sbagliato, pagherò».
Si dice pronto a restituire il maltolto. Nel frattempo, accusa tutti gli altri. E straripa letteralmente dallo schermo.
Lascia trapelare che Renata Polverini sapeva tutto. Poi va a Porta a Porta e fa retromarcia: «Non ho mai parlato della Polverini. E non ho accusato i colleghi».
Quindi si reca in Procura a consegnare un dossier pieno di accuse ai colleghi, compreso il preventivo da 48 mila euro per la festa dell’Ulisse de noantri, il consigliere De Romanis. Dopodichè va a La7 e insinua il dubbio: «Chi l’ha detto che la festa l’ha pagata con i soldi suoi? Andate a controllare i bilanci di un’associazione che si chiama Gippe», che non è un fuoristrada romanesco ma l’acronimo di Giovani del Ppe.
Intervistato dalla Zanzara, avverte il segretario del partito: «Alfano non mi può cacciare». Richiesto di una parola definitiva, dichiara a Tgcom24: «Diciamo che nel Pdl ci sono colleghi con pendenze più grandi delle mie».
Mai sazio di tv, ieri sera sbarcava a Mediaset, per una litigata a «Quinta colonna» con l’on. Ravetto e un confronto con la piazza inferocita («Ahò, che te sei magnato co’ li sordi nostri?»).
L’Impunito non cerca di negare. Difficilmente potrebbe.
Ma, anzichè chiudersi in un dignitoso riserbo e spiegare tutto ai magistrati, Fiorito esterna di continuo alternando pentimenti e rivendicazioni, esibendo atteggiamenti ora penitenziali ora strafottenti.
«È vergognoso che noi utilizziamo somme del genere».
In effetti neppure nei mesi più neri di Tangentopoli si era sentito di un Suv comprato con i soldi del partito. «Ma dire che ho rubato è una falsità assoluta!».
Lei prende uno stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica? «Sì, purtroppo è così».
E ancora: «Sento di avere molti più soldi di altre persone, questo è ingiusto in un momento critico per il Paese».
Eppure, «contro di me c’è una congiura!».
Dopo aver capito i meccanismi della politica degenerata, Fiorito si è impadronito rapidamente di quelli del suo specchio deformante, l’informazione. Ormai non si nega a nessuno.
Ai cronisti che vanno a trovarlo nel suo feudo spiega che non può dare interviste, ma scenderà «a salutare» (e a mandare messaggi: «Autorizzavo le spese dei singoli consiglieri, ho tutte le carte e spero che la Procura me le chieda»).
In tv provoca gli altri consiglieri: «Io sicuramente ho finanziato la loro associazione, e se ora De Romanis ci telefona in diretta lo saluteremo!».
Nel clima da revival della classicità cita la più raffinata opera di Terenzio, l’Heautontimorumenos: «Battistoni è il punitore di se stesso».
Si vanta di aver introdotto le ostriche in Ciociaria. Fa circolare altre battute magari apocrife.
E finisce per diventare il personaggio del momento.
Bersaglio dell’invettiva popolare, punching-ball per le frustrazioni di un tempo tra i più neri della vita pubblica italiana, simbolo di malcostume; ma anche oggetto di un culto sguaiato e sinistro da parte di tanti che nel suo appetito riconoscono il proprio, che nella villa nel parco del Circeo con vista su Ponza e Palmarola vedono la gigantografia del proprio piccolo abuso edilizio, e che magari partecipano alla tavola dei tanti Fiorito d’Italia: perchè gli aperitivi e i pranzi e le cene da migliaia di euro avranno pure i loro commensali. E infatti l’Impunito dichiara con orgoglio: «Non ho perso nessuna delle mie ventisettemila preferenze!».
Diventano un cult pure le sue vacanze, spunta il video di un viaggio vanziniano a San Pietroburgo con la fidanzata Samantha detta Sissi, e lui è sempre disponibile a dirsi contrito: «Il soggiorno da ventinove mila euro in Sardegna è stato un vero schiaffo alla miseria. Di questo sono reo confesso».
E l’attico in via Margutta dell’Istituto pubblico assistenza e beneficienza?
«Ma se pago quattromila euro al mese a tutto vantaggio dei ciechi!».
E l’appartamento dietro piazza di Spagna affittato a prezzo amatoriale dall’Accademia di San Luca, i 735 mila euro prelevati dai conti del Pdl, i 38 bonifici in un giorno?
«Io non sono un ladro. Diciamo che ho gestito una mole di denaro non dignitosa con leggerezza. Ma alla festa di De Romanis l’unico assente ero io!».
E dopo tutto questo intende fare ancora politica?
«Assolutamente sì. Ne uscirò pulito e anzi qualcuno mi dovrà chiedere scusa».
Aldo Cazzullo
(da “Il Corriere della Sera”)
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Settembre 25th, 2012 Riccardo Fucile
SI VA VERSO LA CAMPAGNA ELETTORALE, IL PD LANCIA GASBARRA, REBUS UDC
Dopo le dimissioni di Renata Polverini, per indire le elezioni per la nuova giunta della Regione Lazio c’è tempo 90 giorni.
La legge regionale numero 2 del 2005 recita: «Nei casi di scioglimento del Consiglio regionale, previsti dall’articolo 19, comma 4, dello Statuto, si procede all’indizione delle nuove elezioni del Consiglio e del Presidente della Regione entro tre mesi».
E poi precisa: «Le elezioni sono indette con decreto del Presidente della Regione».
La data delle elezioni deve essere quindi fissata dopo un minimo di 45 giorni.
Nella legge nazionale numero 108 del 1968 (‘Norme per l’elezione dei consigli regionali delle regioni a statuto normalè) si afferma infatti che «i sindaci dei comuni della regione ne danno notizia agli elettori con apposito manifesto che deve essere affisso quarantacinque giorni prima della data stabilita per le elezioni».
Ma la prassi ha avuto anche tempi più lunghi: dopo le dimissioni da governatore di Piero Marrazzo, le elezioni furono indette con decreto il 26 gennaio 2010 e poi si sono tenute il 28 e 29 marzo 2010, circa due mesi dopo.
Nello statuto regionale del Lazio si stabilisce anche che «le dimissioni volontarie, la rimozione, la decadenza, l’impedimento permanente e la morte del Presidente della Regione comportano le dimissioni della Giunta regionale e lo scioglimento del Consiglio regionale. L’esistenza di una causa di cessazione della carica di Presidente della Regione, fatta salva l’ipotesi della rimozione nonchè dello scioglimento del Consiglio ai sensi dell’articolo 126 comma 1 della Costituzione è dichiarata con proprio decreto dal presidente del Consiglio regionale».
Dunque Renata Polverini, secondo la prassi, dovrebbe dare comunicazione delle sue dimissioni al presidente del Consiglio Mario Abbruzzese, a cui spetterebbe l’ufficializzazione con decreto dello scioglimento del Consiglio.
Poi, come stabilisce sempre lo statuto, la giunta dimissionaria «resta in carica presieduta dal presidente della Regione ovvero dal vicepresidente nei casi di rimozione, decadenza, impedimento permanente e morte del presidente, limitatamente all’ordinaria amministrazione, fino alla proclamazione del presidente della Regione neoeletto».
Con le dimissioni di Renata Polverini la campagna elettorale è ai nastri di partenza.
Più che dalle primarie insomma il Pd nel Lazio è stato spinto ad accelerare la sua strategia dall’inchiesta sui fondi Pdl.
La corsa in Campidoglio tra Nicola Zingaretti e Gianni Alemanno si vincerà ora anche in tandem alla sfida per la Regione.
Una Regione Lazio che ormai suona quasi come una maledizione (tre governatori bruciati da diverse inchieste) e che per il Pd dovrebbe vedere la candidatura di Enrico Gasbarra, gia presidente della Provincia di Roma e segretario regionale.
Del resto a spingere sull’acceleratore delle dimissioni sono stati proprio loro due, Zingaretti e Gasbarra, dopo il “la” dato dal primo sul twitter «tutti a casa».
E così in due giorni la parola d’ordine è diventata «via dalla Pisana», l’aula consiliare che Franco Fiorito, ex capogruppo Pdl indagato per peculato, ha dipinto ai pm romani come una sorta di Eldorado popolata da consiglieri dediti alla corsa all’oro.
Una decisione etica sicuramente ma anche elettorale per smarcarsi nettamente da una «storiaccia».
Decisivo per le dimissioni è stato anche Casini che ha detto «ora la parola ai cittadini».
La grande partita a Roma è l’alleanza con l’Udc e il caso Polverini ha permesso al Pd romano di testare la «tenuta» del possibile alleato o almeno la possibilità di trovare alcune convergenze con il partito di Casini corteggiato anche da Alemanno.
Se infatti alla Regione l’Udc era in maggioranza, in Campidoglio è all’opposizione e il sindaco più di una volta aveva “sognato” politicamente una giunta più ampia sul «modello Polverini». Rimpasto mai arrivato.
Ora la sfida si annuncia durissima e sul doppio terreno Comune-Regione.
E l’Udc potrebbe veramente fare la differenza.
Alla fine infatti oggi ha incassato i «grazie» di tutti.
Della dimissionaria Renata Polverini, «mi è stato vicino fino all’ultimo».
E del capogruppo Pd alla Regione Esterino Montino: «La fine di questa brutta pagina è stata raggiunta anche grazie al comportamento responsabile dell’Udc».
Il corteggiamento è appena iniziato.
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