Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
LA LISTA DI CHI E’ FUORI DAI GIOCHI
C’è chi lo sapeva e chi è stato colto alla sprovvista. Chi l’ha prese bene, e chi saluta con tristezza, talvolta rancore.
Una vittoria schiacciante quella del centrodestra alle elezioni del 25 settembre che ha lasciato a terra diversi parlamentari. È lunga la lista di chi non ce l’ha fatta e così molti i saluti a Palazzo Madama e Montecitorio.
A colpire è che diversi sembrano assumere i toni di una bocciatura agli esami. «Non me l’aspettavo, è stato tutto così veloce e non ho avuto il tempo di pensare al dopo», ha commentato così l’ex deputato dem Emanuele Fiano la sconfitta con Isabella Rauti nel collegio di Sesto San Giovanni. Con il 45,4% dei voti contro il 30,8%, la destra si è così ripresa la cosiddetta Stalingrado d’Italia.
E ora che farà? Ancora non lo sa: «Ci penserò – ha detto in un’intervista a Il Giornale – in ogni caso io sono architetto e potrei tornare nello studio da cui sono uscito circa vent’anni fa, quando la passione per la politica mi ha travolto». Se Fiano pensa di lasciare il campo politico (per il momento), c’è chi non ci pensa proprio.
«Ho perso, ma non mi sento bocciata»
È il caso di uno dei volti più noti di Forza Italia, Stefania Prestigiacomo, così come il presidente uscente della Camera Roberto Fico dei 5 Stelle. «Ho perso, ma non mi sento bocciata», ha scritto sui suoi canali social Prestigiacomo dopo 28 anni in Parlamento. Poi, nelle dichiarazioni successive, ha precisato che resterà al servizio del suo partito.
E anche Fico sulla stessa linea: «Continuerò a svolgere attività rilevanti nei 5 Stelle a Napoli, la mia città». Decisa, invece, Lucia Azzolina, ex ministro dell’istruzione del governo Conte II che lascerà i banchi del ministero per tornare a quelli delle mura scolastiche: «Riprenderò il mio ruolo di preside a Siracusa».
Ci sono poi gli imprenditori, come Massimo Mallegni, forzista, ex sindaco di Pietrasanta ed ex senatore (per 5 anni). «Mi dedicherò all’hotel che ho in Versilia e alle gallerie d’arte che con mia moglie Paola abbiamo aperto a Forte dei Marmi e Dubai», ha raccontato.
E poi ancora i grandi nomi: da Luigi Di Maio che con un risultato mortificante – nel proporzionale e nell’uninominale – si è trovato a lasciare la scena. Non è da meno Gianluigi Paragone, a capo di Italexit, fatto fuori dai giochi e che forse potrebbe tornare al mondo dei talk.
«Dura lex, sed lex»
Non manca chi prima della politica faceva della scrittura il suo lavoro e che – forse – tornerà a farlo.
«Questo racconto meriterebbe questo titolo: Fine seduta mai», ha commentato il democratico Filippo Sensi, anche lui ex deputato e candidato non eletto.
Tra questi ultimi anche Federica Zanella, leghista, che ci tiene a rivendicare le battaglie portate a termine: «Ho ottenuto buoni risultati, come il reato di sexting e Revenge porn».
Tra i leghisti è rimasto fuori anche Gianni Tonelli che in un post su Facebook dal titolo Errore al Viminale commenta la sua uscita con sportività: «Dura lex, sed lex. Sono cose che vanno prese con la dovuta serenità e obiettività. Se ci sono i numeri si entra in Parlamento, altrimenti no. Sono le regole della democrazia». Ma chiarisce: «Non mancherò di dare il mio contributo alla vita pubblica del Paese».
(da agenzie)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
MIGLIAIA DI PERSONE IN PIAZZA IN SEDICI CITTA’ D’ITALIA
Avrete tutta la nostra rabbia, lo spettacolo deve ancora iniziare’. Questa è una delle frasi scritte su uno dei cartelli portati in piazza a Roma per la giornata dell’aborto libero, gratuito e sicuro. Ed è proprio questo sentimento di rabbia che ieri ha attraversato le manifestazioni organizzate in tutta Italia dal movimento transfemminista Non Una di Meno, che ha portato in piazza migliaia di persone. Tante le giovanissime, tante le donne più adulte, le ragazze e i ragazzi in transizione e le personalità fluide.
A tre giorni dall’affermazione elettorale della destra e di Giorgia Meloni, la giornata per l’aborto libero, gratuito e garantito assume per molte un significato particolare. “Ci vogliamo vive”, recita lo striscione d’apertura della piazza a Roma.
Dalla punta dello stivale fino a Verona, migliaia di persone sfilano dopo una campagna elettorale che ha fatto del tema dell’aborto e della 194 uno dei suoi capisaldi.
“Non voglio toccare la 194, voglio garantire a chi non vuole abortire il diritto di non farlo”, ha dichiarato a più riprese Giorgia Meloni. Ma in Italia il problema principale dell’interruzione di gravidanza è che chi vuole accedervi ha serie difficoltà a farlo.
Secondo l’indagine ‘Mai Dati, Dati Aperti’ di Chiara Lalli e Sonia Montegiove per Fandango Libri, in Italia ci sono trentuno strutture sanitarie con il 100% di obiettori di coscienza, quasi cinquanta con una percentuale superiore al 90%, e più di ottanta con oltre l’80%.
Nella pratica vuol dire che chi cerca di accedere all’Ivg deve scontrarsi con il ‘no’ dei medici, spesso deve cambiare città e subire trattamenti umilianti e psicologicamente pesanti.
“C’è una linea che unisce quanto successo negli Stati Uniti con il ribaltamento di ‘Roe contro Wade‘ e quanto affermato sull’aborto in questa campagna elettorale – spiegano dalla piazza – Il corpo delle donne, delle persone omosessuali, fluide, delle soggettività transgender è stato spesso al centro dei discorsi della destra. Quello che temiamo è che si segua la scia di altri paesi come la Polonia e l’Ungheria, in cui i diritti saranno sempre meno garantiti. Ma non glielo permetteremo”.
“Vogliamo quello che ci spetta, vogliamo diritti e garanzie, vogliamo molto più di 194. Vogliamo gli obiettori fuori dai consultori e ospedali pubblici. Vogliamo il diritto alla salute, al welfare e al reddito per l’autodeterminazione”.
Roma, Verona, Palermo, Bologna, Brescia, Firenze, Livorno, Reggio Calabria, Milano Torino. La marea transfemminista ha di nuovo invaso l’Italia. Quella del 28 settembre è stata la prima manifestazione di opposizione a quello che molto probabilmente sarà il governo guidato da Giorgia Meloni. “Il suo curriculum parla chiaro. Questo è un paese che odia le donne, ma non ci faremo portare via autodeterminazione e autonomia”.
(da Fanpage)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
IN SENATO LA MAGGIORANZA DEL CENTRODESTRA È DI SOLI 11 SENATORI, E DUNQUE POCHISSIMI DI LORO POTRANNO FARE I MINISTRI O I SOTTOSEGRETARI, PERCHÉ POI IN AULA O NELLE COMMISSIONI BASTEREBBE UN’INFLUENZA PER ANDARE SOTTO NELLE VOTAZIONI
Giorgia Meloni è scomparsa subito dopo la notte, per lei magica, del 25 settembre. Non ha fatto nessuna conferenza stampa come da tradizione del vincitore delle elezioni, ha vietato ai suoi fedelissimi di festeggiare e si è chiusa in casa con la figlia e il marito. Un incontro con la madre, abbracci con la sorella Arianna. Poi buio quasi totale.
Nessuna comunicazione con l’esterno, a parte un video Instagram con il suo personal trainer, e soprattutto con il mondo politico che aspetta trepidante le sue prossime mosse.
Tra i pochi eletti sentiti nelle ultime ore solo Francesco Lollobrigida, cognato e potente capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, e Giovanbattista Fazzolari, oggi forse l’uomo di cui la probabile futura premier si fida di più.
Guido Crosetto, invece, non è riuscito a sentirla subito.
«Tutto quello che avete letto e sentito in merito al toto-ministri, e in particolare sull’ipotesi dei due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani che la dovrebbero affiancare, non viene da fonti attendibili. Sono veline e “spin” di uomini della Lega e di Forza Italia che vogliono dare indirettamente indicazioni a Giorgia» dice un dirigente di FdI.
Né con Tajani (è il forzista ad aver chiesto un incontro a tu per tu con lei martedì) né ieri con Salvini si sarebbe dunque «mai parlato di ministri né dell’assetto futuro a palazzo Chigi, ma solo della situazione generale, dei tempi della legge di Bilancio e dei presidenti di Camera e Senato: Meloni vorrebbe concedere un posto all’opposizione, gli alleati no».
La scelta della Meloni di staccare per qualche giorno è figlia di risultati che in cuor suo sperava, ma non nella consistenza in cui le urne li hanno palesati: gli italiani – complice la legge elettorale che favorisce le coalizioni – le hanno dato quasi un assegno in bianco, con una maggioranza larga del centrodestra in entrambe le camere, una supremazia sugli alleati non banale e un profilo di un governo sovranista che potrebbe sulla carta durare cinque anni, se la destra reggerà alle tensioni interne e alle pressioni esterne.
Meloni sa bene che palazzo Chigi non è una poltrona come le altre, e che scegliere una squadra di governo adeguata sarà fondamentale per non logorarsi in tempi brevi. La presidente del partito post fascista e filo Orbán sa pure che Fratelli d’Italia non ha una classe dirigente pronta a gestire, in tempi tra l’altro difficilissimi, la macchina dell’esecutivo.
Come già anticipato da questo giornale tempo fa, Meloni intende dunque fare scouting anche all’esterno per i ministri più importanti.
Sonderà il Quirinale chiedendo copertura soprattutto sulle caselle dell’Economia, dell’Interno, degli Esteri e della Difesa, e proverà in ogni modo a resistere alle richieste degli alleati. Soprattutto a quelle che potrebbero mettere nell’immediato futuro a rischio il suo governo e danneggiare l’immagine dell’Italia.
SICUREZZA NAZIONALE
Un risiko di poltrone complesso che si dipanerà solo nelle prossime settimane, ma che vede alcuni punti fermi, e alcuni protagonisti certi. Partiamo dall’affaire più spinoso. Che fare di Salvini, uscito a pezzi dalle elezioni con un misero 8,9 per cento ma fondamentale per far partire il governo?
È noto che il leader del Carroccio voglia tornare al Viminale, dove spera di replicare l’esperienza del governo Conte I, quando la guerra ai migranti e alle ong gli consentì di guadagnare consenso a iosa. Salvini sa pure che senza un posto di rilievo al governo, il suo futuro da leader traballante sarebbe ancora più in bilico.
Meloni, però, non vuole l’ingombrante alleato tra i piedi. Né all’Interno, né in altri ruoli con deleghe importanti. Non solo teme che il leader della Lega possa finire tutti i giorni sui giornali (ricordiamo che sul Capitano grava l’accusa di omissioni di atti d’ufficio e sequestro di persona per aver negato lo sbarco dei disperati della Open Arms). Ma perché sa che gli alleati americani, che saranno centrali per la sua durata, non vogliono filorussi nel governo.
Meloni, soprattutto, si è convinta a tenerlo fuori anche dopo il recente viaggio a Washington di Adolfo Urso, attuale presidente del Copasir e forse futuro ministro della Difesa, che ha dichiarato come nei dossier Usa sui partiti e leader finanziati da Mosca «l’Italia non risulta tra i paesi coinvolti». Aggiungendo sibillino che «le cose possono sempre cambiare».
Un alert che Meloni non sottovaluta: se le vicende russe dovessero maturare e deflagrare (la Lega è coinvolta nello scandalo del Metropol svelato dall’Espresso su cui sta lavorando da anni la procura di Milano, mentre il dipartimento di Stato guidato da Antony Blinken conosce ogni dettaglio degli incontri segreti tra Salvini e l’ambasciatore russo a Roma), vuole che l’alleato sia il più lontano possibile da incarichi sensibili del governo.
«Il niet a Salvini di Giorgia non è di natura politica, ma legato alla sicurezza nazionale e alla protezione del futuro esecutivo», dice un altra autorevole fonte di Fratelli d’Italia. «Ricordiamoci che il ministro dell’Interno siede anche nel Consiglio supremo di Difesa presieduto dal capo dello stato. Uno scandalo per Meloni sarebbe devastante»
Ecco perché all’Interno Meloni sta puntando a un tecnico. Come è noto, il nome che ritorna è quello del prefetto di Roma Matteo Piantedosi. La leader conservatrice lo stima come uomo di stato, e perché sa che vanta rapporti eccellenti con gli attuali capi delle forze dell’ordine. Soprattutto, crede che Salvini non potrà opporre veti, perché fu proprio lui a sceglierlo come suo capo di gabinetto durante l’esperienza al Viminale.
Piantedosi è un civil servant che da sempre sostiene che ruoli delicati come quello del ministro dell’Interno, che gestisce ordine pubblico e il tema dell’immigrazione, dovrebbero essere responsabilità della politica, ma difficilmente dirà no se promosso all’alto incarico, a cui sotto sotto agognano anche Maurizio Gasparri o leghisti come Nicola Molteni, attualmente sottosegretario.
Detto questo, disinnescare Salvini sarà arduo, ma Meloni punta sul fatto che – se dovesse impuntarsi tanto da mettere a rischio la nascita del governo – i suoi uomini (ha riempito le liste di fedelissimi) non lo seguirebbero fino in fondo.
DELUSIONE CROSETTO
Quello con Salvini non è l’unico braccio di ferro che sta giocando la possibile futura presidente del Consiglio. Qualche grattacapo glielo sta dando anche qualcuno dei suoi consiglieri. A sorpresa, come ha scoperto Domani, proprio Guido Crosetto, cofondatore di Fratelli d’Italia e dato dai giornali come sicuro membro dell’esecutivo che verrà.
In realtà da qualche settimana i rapporti tra l’imprenditore e Meloni si sono raffreddati. La leader non ha apprezzato alcune uscite pubbliche dell’amico, e pure il fatto che il lobbista presidente degli armieri dell’Aiad, indicato sia come il Rasputin delle nomine sia come possibile ministro, sottosegretario o amministratore delegato di Leonardo, possa passare per una sorta di “Marco Carrai della Meloni”. Creandole in futuro problemi a causa di possibili conflitti d’interessi legati alle consulenze che il cofondatore del partito prende da aziende e società assortite.
Mal sopportato dai dirigenti del partito che non gradiscono che l’ex parlamentare sia sempre in tv o sui giornali a parlare a nome di Meloni e FdI senza avere più alcun incarico ufficiale, Crosetto è scivolato su una buccia di banana lo scorso 9 settembre.
Ha rilasciato un’intervista ad Avvenire non concordata con la leader, nella quale di fatto spiegava che Meloni «non farà da sola», e lanciando un governo di larghe intese o di unità nazionale «dei migliori per salvare l’Italia. Da questo mare in tempesta non si esce da soli. Giorgia non arriverà alla guida del paese per fare la donna sola al comando: se servisse… parlerebbe con Letta, così come con Conte e Calenda».
Risulta a Domani che Meloni leggendo le parole del consigliere sia diventata furiosa, e che solo per un pelo non abbia smentito Crosetto con un’agenzia seduta stante.
Quasi nessuno però ha notato che Meloni il giorno dopo ha rilasciato un’altra intervista, sempre su Avvenire, dettata solo per smentire Crosetto sullo stesso giornale in cui si era avventurato in esegesi sgradite.
«Non faremo governi arcobaleno», il titolo secco. «Serve un governo coeso, può essere garantito solo da una coalizione di centrodestra che hanno idee compatibili», spiegava poi la presidente. «Le parole di Crosetto? Non parlava del governo, ma della necessità di uscire dalle contrapposizioni ideologiche… le larghe intese non hanno prodotto nulla di buono, solo soldi spesi a pioggia».
Qualcuno in FdI ha pure suggerito al capo che forse Crosetto (un ex democristiano la cui genealogia politico-culturale ha poco da spartire con quella dell’inner circle della post fascista) sperava di poter diventare lui stesso presidente del Consiglio di mediazione, in caso di una vittoria non schiacciante di Meloni. Una circostanza che, vera o falsa che sia, ha incrinato la fiducia assoluta che la leader aveva fino a poco tempo fa nel suo consigliere.
Crosetto resta comunque una delle migliori teste pensanti del partito, con rapporti eccellenti nei ministeri, nel deep state, nelle partecipate e nell’intelligence: vedremo nei prossimi giorni se le tensioni tra i due si smusseranno, e se l’imprenditore farà parte o meno della compagine di governo.
Difficilmente, comunque, siederà al ministero della Difesa: il Quirinale conosce bene i conflitti di interessi del cofondatore ed è pronto a mettere il veto. Nonostante proprio ieri il lobbista abbia annunciato che abbia deciso di liquidare, per evitare insinuazioni, la società di consulenza aperta tempo fa con moglie e figlio.
SENATORI O MINISTRI?
Come già anticipato da Domani, Meloni non vuole dirigenti del suo partito in ministeri chiave. Con qualche eccezione: il senatore Fazzolari, pure responsabile del programma di FdI, lo vuole a fianco a sé.
Come ha scritto il Corriere, potrebbe prendersi il ministero per l’Attuazione del programma: Meloni odia gli individualisti, e apprezza il suo colonnello perché capace di lavorare in collettivo, poco propenso a esporsi mediaticamente, capace di fare una citazione in più lingue sulla letteratura russa o francese (è diplomato allo Chateaubriand di Roma).
Molti credono che anche l’altro fedelissimo Lollobrigida sarà ministro, ma Giorgia gli chiederà di restare capogruppo del partito alla Camera. Tra i dirigenti del partito premono per un posto Daniela Santanchè, Nello Musumeci (Meloni vorrebbe farlo ministro del Sud) e ovviamente Ignazio La Russa, che la leader potrebbe accontentare con un sottosegretariato senza deleghe di peso, in un ruolo alla Bruno Tabacci
Qualsiasi desiderata dei pretendenti, così come gli addetti ai lavori che giocano al toto-nomine, deve fare però i conti con un’evidenza a cui in pochi sembrano riflettere: in Senato la maggioranza del centrodestra è di soli 11 senatori, e dunque pochissimi di loro potranno fare i ministri o i sottosegretari, perché poi in aula o nelle commissioni il rischio di andare sotto nelle votazioni sarebbe all’ordine del giorno.
I nomi che turbinano per poltrone istituzionali o nell’esecutivo (Elisabetta Casellati, Anna Maria Bernini che sogna la presidenza di palazzo Madama, il leghista Gian Marco Centinaio che potrebbe tornare a fare il ministro dell’Agricoltura, Claudio Durigon riproposto dal Carroccio come sottosegretario, gli stessi meloniani Fazzolari e Alessio Butti che chiede la delega alle telecomunicazioni, per finire con big come Urso, Licia Ronzulli, Lucia Borgonzoni, Lucio Malan, Salvini e Berlusconi) sono tutti senatori. A causa della matematica, in molti rimarranno a bocca asciutta.
SENZA MEF
Ma la issue principale, per cui Meloni è più preoccupata, è che il suo possibile governo non ha ancora un ministro dell’Economia. La casella più importante è rimasta a oggi sguarnita a causa nel niet di Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce e nome che Mario Draghi ha consigliato alla leader già settimane fa. Il corteggiamento è stato martellante, ma finora da Francoforte sono arrivate solo fumate nere. Per due motivi: Panetta (che è uomo di centrodestra e con Meloni si intende benissimo) vuole diventare a tutti i costi governatore della Banca d’Italia dopo la fine del regno di Ignazio Visco. «Sembra inconvincibile», ripete lei ai suoi.
L’economista (che prenderebbe al Mef uno stipendio assai più basso di quello che ora prende alla Bce) ha però declinato il suo diniego con un ragionamento non peregrino, del tipo: «Cara Giorgia, io da qui posso aiutare te e il paese in una posizione privilegiata, perché non è detto che se vado via dalla Bce mi sostituiscano con un altro italiano. Spero che tu poi mi possa in futuro sostenere per diventare governatore».
Il problema per Meloni è che un numero uno a via Nazionale si trova facilmente, un ministro dell’Economia che rassicuri contemporaneamente l’Unione europea, Christine Lagarde e i mercati assai meno. L’ultima speranza per la premier in pectore è un intervento diretto di Mattarella: chiamato dal presidente, difficilmente l’economista potrebbe rifiutarsi. Per ora, però, dal Quirinale nessuno si è mosso.
«Se quello del professore Cesare Pozzo è tramontato, nomi pure eccellenti come quello di Domenico Siniscalco o Luigi Buttiglione non sono farina del sacco di Fratelli d’Italia. Giorgia non li conosce personalmente, e di base non si fida di chi non conosce», dice un dirigente che crede che sia stato Crosetto a mettere sui giornali il nome dell’ex ministro del secondo e terzo governo Berlusconi.
In estrema ratio, se Panetta non dovesse convincersi e se Siniscalco (che direbbe invece subito di sì) non trovasse aperture da parte della leader, una possibilità seppur marginale se la giocherà Giulio Tremonti. La Meloni sa benissimo che l’ex berlusconiano non è amato a Bruxelles e alla Bce, ma potrebbe vendersi il nome del commercialista spiegando in prima persona, con comunicati che anticipino la nomina, che il suo governo intende rispettare i vari vincoli europei e che non intende fare scostamenti di bilancio. Chiarendo insomma che la “Melonomics” la definirebbe lei, insieme al viceministro con delega al fisco Maurizio Leo.
Un tentativo, in pratica, per depotenziare l’impatto negativo di una promozione di Tremonti. Una mossa azzardata, tanto che qualcuno in FdI suggerisce al capo di sparigliare tutto, e chiamare un outsider come il capo dell’Eni Claudio Descalzi, già dato papabile agli Esteri e allo Sviluppo economico. Il manager punta però a un quarto mandato nel Cane a sei zampe, incarico che gli permetterà di essere più potente di tre ministeri insieme e di non perdere stipendio di rilievo.
Di fatto, la casella al Mef resta dunque vacante. Ed è un problema gigantesco per la vincitrice. Il 25 settembre ha dato potenzialmente il via a un cambio di fase totale, un ribaltamento di regime come non si vedeva dal 2011, che peserà sugli assetti profondi del potere, delle società pubbliche, della finanza e della geopolitica.
Il Mef è ontologicamente al centro della possibile rivoluzione meloniana, e l’uomo che siederà a via XX Settembre dovrà tenere insieme politica interna, i progetti sovranisti e i vincoli esterni che nemmeno una come la Santanchè nega più («non si può andare contro l’Europa e i mercati», ha detto davanti un esterrefatto Mario Giordano). Non avere nome autorevole in tempi brevi rischia di far partire il governo azzoppato.
EFFETTO BELLONI
Altro aspetto determinante sono le donne: Meloni vuole che nel governo siano tante. Anche per replicare con i fatti a chi, a sinistra, la indica come foglia di fico di una politica maschilista che in realtà tende a limitare i diritti delle donne.
Una delle candidate “tecniche” è certamente Elisabetta Belloni, attuale capo del Dis, il dipartimento di palazzo Chigi che coordina le due agenzie dei servizi segreti. È corretto, come sostengono alcuni media, che la funzionaria che è stata a un passo dal diventare presidente della Repubblica sia diventata qualche giorno fa la candidata preferita di Meloni per la Farnesina.
Una poltrona su cui smania da mesi proprio l’alleato Tajani, che Giorgia considera meno adeguato della dirigente e che vorrebbe dirottare al ministero delle Politiche europee o ad altro incarico come l’Interno, Lega permettendo.
Se Tajani dovesse alla fine alzare le barricate, c’è un altro posto dove potrebbe essere chiamata Belloni: a palazzo Chigi, come autorità delegata ai servizi segreti. Ruolo a cui mira anche Crosetto. Un ruolo chiave e delicatissimo che Meloni non vuole dare a nessun politico di Fratelli d’Italia.
Non perché non stimi uno come Urso (che infatti è in pole per la Difesa; per la cronaca è molto amico di Belloni con cui va talvolta a pranzare insieme) ma perché non vuole che le responsabilità dell’intelligence ricadano su uomini a lei collegabili.
Se Belloni accetterebbe certamente la Farnesina (dove dipendenti e ambasciatori tifano per lei piuttosto che per Stefano Pontecorvo o Giulio Terzi di Sant’Agata), difficilmente si sposterebbe negli uffici di Franco Gabrielli. A quel punto Meloni si affiderebbe un prefetto terzo o allo stesso Piantedosi (che lascerebbe così l’Interno a un altro candidato, come il collega Giuseppe Pecoraro appena eletto nelle liste di FdI), oppure potrebbe tenere per qualche mese le deleghe per sé, e poi decidere che farne.
Un’eventuale nomina di Belloni alla Farnesina creerebbe, va detto, una serie di problemi a cascata: l’ira di Antonio Tajani in primis, e la ricerca di un sostituto al Dis. Fatto che potrebbe innescare a cascata un giro di nomine anche nell’Aisi e nell’Aise, quando i tempi non sono certo maturi per cambiamenti radicali. Ecco perché non è detto che la dirigente alla fine resti, almeno per ora, dov’è.
BRACCIO DI FERRO
Il risiko è dunque ancora alle battute iniziali, e incastrare tutti i pezzi non sarà operazione semplice. Detto che non c’è nemmeno una squadra definita a palazzo Chigi che sostituisca i draghiani Roberto Garofoli e Antonio Funiciello, e che vari ministeri sono contesi da personalità diversissime tra loro: alla Cultura si sfidano l’improbabile Federico Mollicone, il sociologo Luca Ricolfi e la leghista Lucia Borgonzoni, alla Famiglia Lorenzo Fontana e Alfredo Mantovano, la Salute sembrerebbe affare di Licia Ronzulli.
Quello su cui Meloni eserciterà più pressioni è però il ministero della Giustizia. Lei vorrebbe mettere l’ex pm Carlo Nordio, la Lega invece l’avvocata Giulia Bongiorno. Dietro di loro ci sono mondi e lobby diverse, che si contenderanno il posto cruciale da guardasigilli.
La presidente del Consiglio in pectore sa che Buongiorno è capace, ma la leader non ha mai dimenticato che la leghista è stata per anni la legale di Giancarlo Fini sullo scandalo della casa di Montecarlo, che la fondazione di Alleanza nazionale vendette a prezzi ridicoli al cognato Giancarlo Tulliani.
Una vicenda che squassò la destra, e che la giovane Meloni – seppure i rapporti con Fini sono oggi cordiali – non ha mai digerito davvero. Anche se sono passati più di dieci anni.
(da Domani)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
“UNA FOLLIA PENSARE DI ABOLIRE ILREDDITO DI CITTADINANZA”
«In un Paese civile si dovrebbe pensare a come progredire. Temo che in questa legislatura la sfida sarà evitare in ogni modo che il Paese scivoli all’indietro. Costituzione, lavoro, diritti, ambiente: i fronti minacciati sono molti, a giudicare anche dai primi segnali che arrivano dal centrodestra. Noi saremo intransigenti, ci batteremo, fuori e dentro il Parlamento, con chi vorrà essere al nostro fianco».
Chiara Appendino, l’ex sindaca eletta deputata per il Movimento 5 Stelle, è in piazza Castello, a Torino, alla manifestazione indetta da «Non una di meno» in difesa del diritto all’aborto. E da lì lascia intendere quel che sarà questa legislatura dal suo punto di vista: battaglie in aula e nella piazze.
Il primo segnale lanciato da Fratelli d’Italia è il voto in Liguria sull’aborto. Che segnale è?
«La conferma di quel che si sapeva. Per tutta la campagna elettorale hanno giocato sulle parole, confondendo nell’immaginario dei cittadini la legge 194 con il diritto a non abortire. Che c’è, a differenza di quello ad abortire che in molte Regioni non è garantito. La verità è che il loro obiettivo è promuovere un sistema nel quale si provi a convincere chi ha già deciso di abortire a cambiare idea. Ed è un segnale molto pericoloso contro cui sono sicura molti cittadini si mobiliteranno».
L’altro segnale forte che arriva dalla destra riguarda il reddito di cittadinanza: da abolire.
«Viviamo un momento di crisi, i prossimi mesi saranno anche peggiori e andranno a colpire un Paese che non si era ancora rialzato dalla pandemia. I numeri dell’Inps segnalano che aumentano gli italiani che ricevono il reddito di cittadinanza perché non hanno un lavoro o il loro stipendio è troppo basso. È inaccettabile e indegno che, in un contesto simile, qualcuno abbia in testa di fare la guerra ai poveri smantellando le forme di protezione. Qui è in gioco la tenuta sociale del Paese».
È preoccupata di quel che potrebbe accadere se il reddito venisse abolito?
«Certo che lo sono. Chi governa il Paese in questo momento dovrebbe porsi il problema di come rafforzare le tutele verso i più deboli anziché progettare di eliminarle. La pandemia avrebbe dovuto insegnare quanto in un momento d’emergenza sia decisivo attivare reti di protezione in grado di salvare migliaia di famiglie dalla povertà assoluta. Quel modello è stato virtuoso».
Fratelli d’Italia propone di mantenere i sussidi solo per chi è inabile al lavoro.
«E chi ha uno stipendio troppo basso, chi è sottopagato? Lo lasciamo finire in mezzo a una strada? E chi si occuperà poi di queste persone? I Comuni saranno lasciati a mani nude a gestire una situazione esplosiva. Su questo daremo battaglia in tutte le sedi».
Anche fuori dal Parlamento?
«Io auspico e credo che – se i principi cardine di questo Paese, dalla Costituzione ai diritti alla tutela dei più deboli, dovessero finire sotto attacco – nella società si scatenerà una reazione, una battaglia popolare e culturale».
E in Parlamento?
«Spero lo stesso: una reazione trasversale».
Ritiene quindi possibile un’opposizione comune al centrodestra?
«Se dovessi rispondere in base alla reazione di Enrico Letta alla sconfitta direi di no: continua a evocare l’agenda Draghi e incolpare noi di ogni male. Con questo gruppo dirigente del Pd non vedo i presupposti per un percorso insieme. Ma se in Parlamento ci troveremo sulla stessa linea nell’opporci a determinati provvedimenti sarà naturale fare una battaglia comune».
C’è chi ritiene che il vostro vero obiettivo sia continuare a erodere consensi al Pd da sinistra più che combattere la destra.
«Noi seguiremo con coerenze e intransigenza la nostra agenda: salari, diritti, lotta al precariato, giovani, ambiente. Se queste battaglie saranno condivise da altre forze le faremo insieme. Ma una strada comune si imbocca con le azioni, non a parole. E nei fatti è il Pd ad aver rinnegato la rotta tracciata con il governo Conte 2. E se ora, dopo il voto, c’è chi propone di ricucire con Calenda, mi sembra evidente che margini non ce ne sono. Non perché Calenda sia antipatico, ma perché le sue posizioni sono incompatibili con un’agenda progressista come la nostra».
(da La Stampa)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
I MILITARI CHIAMANO LE LORO FAMIGLIE DISPERATI: “CI HANNO DATO L’ORDINE DI UCCIDERE CHIUNQUE. CI AVEVANO DETTO CHE SAREMMO PARTITI PER UN’ESERCITAZIONE MA QUESTA È UNA GUERRA. STIAMO SEPPELLENDO UN UOMO DIETRO L’ALTRO. LA NOSTRA OFFENSIVA È IN STALLO”
La capitale ucraina doveva cadere nel giro di pochi giorni, secondo i piani del Cremlino. Ma afflitta da errori tattici e sorpresa dalla resistenza ucraina, l’avanzata distruttiva dell’esercito di Vladimir Putin si è rapidamente bloccata e le sue forze si sono impantanate per la maggior parte di marzo alla periferia di Kiev.
Da trincee, rifugi e nelle case occupate nell’area intorno a Bucha, un sobborgo occidentale di Kiev, i soldati russi hanno disobbedito agli ordini effettuando chiamate non autorizzate dai loro cellulari a mogli, fidanzate, amici e genitori a centinaia di chilometri dalla prima linea. Qualcun altro stava ascoltando: il governo ucraino.
Lo racconta il New York Times che ha ottenuto in esclusiva le registrazioni di migliaia di chiamate effettuate durante tutto il mese di marzo e intercettate dalle forze dell’ordine ucraine.
I giornalisti hanno verificato l’autenticità di queste chiamate incrociando i numeri di telefono russi con le app di messaggistica e i profili dei social media per identificare soldati e familiari. Il Times ha trascorso quasi due mesi a tradurre le registrazioni, che sono state modificate per chiarezza e lunghezza.
Le chiamate, fatte da dozzine di combattenti delle unità aviotrasportate e della Guardia nazionale russa, non sono state precedentemente rese pubbliche e offrono una visione dall’interno di un esercito allo sbando a poche settimane dall’inizio della campagna.
I soldati descrivono una crisi di morale e una mancanza di equipaggiamento e affermano di essere stati ingannati sulla missione in cui si trovavano, tutte condizioni che hanno contribuito alle recenti battute d’arresto per la campagna russa nell’est dell’Ucraina.
Ecco alcune delle loro frasi:
«Siamo posizionati a Bucha»
«Putin è pazzo. Vuole prendere Kiev. Ma non riusciamo a farlo»
«La nostra offensiva è bloccata. Stiamo perdendo questa guerra»
«Metà del nostro reggimento è andato»
«Ci hanno dato ordine di uccidere chiunque vediamo»
«Quando torno a casa, lascio. Fanculo l’esercito»
«Cazzo. Ci sono cadaveri dappertutto sulla strada. Civili a terra ovunque. Siamo fottuti» «Sulla strada?» «Si»
«Tutto è stato maledettamente saccheggiato. Tutto l’alcool è stato maledettamente bevuto. E tutto il denaro preso. Lo sta facendo chiunque qui»
«Nessuno ci ha detto che stavamo andando in guerra. Ci hanno avvisato un giorno prima di partire»
«Dovevamo andare a fare una esercitazione per due o tre giorni»
«Non sapevo che sarebbe successo questo. Ci hanno detto che dovevamo partire per una esercitazione. Questi bastardi non ci hanno detto niente»
«Mamma, questa è la decisione più stupida che il nostro governo abbia mai preso, penso»
«Che cos’altro dicono? Quando finirà tutto questo Putin? Cazzo» «Lui dice che tutto sta andando secondo i piani e i tempi prestabiliti» «Si sbaglia gravemente».
«Non possiamo prendere Kiev, prendiamo solo dei villaggi e basta».
«Volevano fare tutto in un colpo qui e non ha funzionato così, cazzo»
«Vogliono solo fregare la gente in tivù, tipo: “va tutto bene, non c’è nessuna guerra, solo una operazione speciale” ma nella realtà è una fottuta guerra»
«Siamo in una posizione di merda, per così dire. Ci siamo spostati in difesa. La nostra offensiva è in stallo».
«Un sacco di paracadutisti si muovevano davanti a noi. Sono stati fottutamente colpiti»
«Le nostre forze armate ci hanno bombardato. Pensavano fossero dei fottuti khokhol… Pensavamo di essere finiti».
«Vanya, le bare continuano ad arrivare. Stiamo seppellendo un uomo dopo l’altro. Questo è un incubo»
«Li abbiamo detenuti, spogliati e abbiamo controllato tutti i loro vestiti. Poi si è dovuto decidere se lasciarli andare. Se li avessimo lasciati andare, avrebbero potuto rivelare la nostra posizione… Così è stato deciso di sparargli nella foresta». «Gli avete sparato?» «Naturalmente, gli abbiamo sparato». «Perché non li avete presi prigionieri?» «Gli avremmo dovuto dare da mangiare e non abbiamo abbastanza cibo neanche per mangiare noi, quindi…»
«Mamma, non abbiamo visto un solo fascista qui… Questa guerra è basata su un falso pretesto. Nessuno ne aveva bisogno. Siamo arrivati qui e le persone vivevano una vita normale. Molto bene, come in Russia. E ora devono vivere negli scantinati. La vecchia signora che abitava vicino a noi doveva abitare in cantina. Riesci a immaginare?».
(da agenzie)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
LA DONNA ERA TORNATA IN UCRAINA UN MESE DOPO L’INIZIO DELLA GUERRA, ARRUOLANDOSI NELL’ESERCITO COME INFERMIERA VOLONTARIA E LASCIANDO LA FAMIGLIA
Era un’infermiera. E una mamma. E probabilmente prima di quest’anno non aveva mai abbracciato fucile. Ma quando è iniziata l’invasione russa si è fatta coraggio ed è andata a combattere per il suo Paese, fino alla fine.
Marianna Triasko, ucraina residente in Veneto da 14 anni, è morta in combattimento a soli 37 anni. Era tornata nel suo Paese, l’Ucraina, un mese dopo l’inizio del conflitto, arruolandosi nell’esercito come infermiera volontaria.
Originaria di Ivano-Frankivsk, risiedeva a Villorba, nel Trevigiano, ed era sposata con un italiano. Aveva due figli di 10 e 14 anni. Aveva detto alla sua famiglia di essere partita per il suo Paese come volontaria della Croce Rossa e l’ultimo scambio di messaggi con la sorella è avvenuto due giorni prima il suo decesso.
Secondo quanto si apprende, Marianna è stata ferita il 23 a Zaporizhzhia, o nelle vicinanze, dove prestava servizio presso un locale ospedale civile o un ospedale da campo. Era verosimilmente inquadrata nell’unità A7166 della Difesa Territoriale dell’Esercito ucraino. Gravemente ferita sul campo a causa di colpi di mortaio, per circa due giorni i medici hanno cercato di fare l’impossibile per salvarle la vita, ma la donna non ce l’ha fatta.
«Voleva essere utile ai nostri militari e all’Ucraina», ha raccontato una sua amica, rivelando che Marianna dopo avere visto in televisione che c’era carenza di personale medico in Ucraina, non ha avuto alcuna esitazione a lasciare tutto e partire. «Ricordo il nostro primo incontro, parlava molto e sorrideva tutto il tempo, come se non avesse paura. I suoi fratelli erano orgogliosi di lei. Era sempre preoccupata per il loro benessere, sapeva come incoraggiare le persone».
In molti nel suo villaggio – che si trova nella regione di Ivano-Frankivsk – continuano a conservare un bel ricordo di lei. «Marianna è cresciuta qui, è andata a scuola, poi ha lavorato in un ospedale locale, faceva il medico – precisa un suo conoscente al sito ucraino news.obozrevatel.com -. Circa 14 anni fa è andata a vivere e lavorare in Italia. Le sue due sorelle e la madre vivono lì, mentre suo fratello in Germania». In base a quanto riportano alcuni media ucraini, il corpo della giovane sarà presto consegnato e sepolto nella sua terra natale.
(da agenzie)
Era un’infermiera. E una mamma. E probabilmente prima di quest’anno non aveva mai abbracciato fucile. Ma quando è iniziata l’invasione russa si è fatta coraggio ed è andata a combattere per il suo Paese, fino alla fine.
Marianna Triasko, ucraina residente in Veneto da 14 anni, è morta in combattimento a soli 37 anni. Era tornata nel suo Paese, l’Ucraina, un mese dopo l’inizio del conflitto, arruolandosi nell’esercito come infermiera volontaria.
Originaria di Ivano-Frankivsk, risiedeva a Villorba, nel Trevigiano, ed era sposata con un italiano. Aveva due figli di 10 e 14 anni. Aveva detto alla sua famiglia di essere partita per il suo Paese come volontaria della Croce Rossa e l’ultimo scambio di messaggi con la sorella è avvenuto due giorni prima il suo decesso.
Secondo quanto si apprende, Marianna è stata ferita il 23 a Zaporizhzhia, o nelle vicinanze, dove prestava servizio presso un locale ospedale civile o un ospedale da campo. Era verosimilmente inquadrata nell’unità A7166 della Difesa Territoriale dell’Esercito ucraino. Gravemente ferita sul campo a causa di colpi di mortaio, per circa due giorni i medici hanno cercato di fare l’impossibile per salvarle la vita, ma la donna non ce l’ha fatta.
«Voleva essere utile ai nostri militari e all’Ucraina», ha raccontato una sua amica, rivelando che Marianna dopo avere visto in televisione che c’era carenza di personale medico in Ucraina, non ha avuto alcuna esitazione a lasciare tutto e partire. «Ricordo il nostro primo incontro, parlava molto e sorrideva tutto il tempo, come se non avesse paura. I suoi fratelli erano orgogliosi di lei. Era sempre preoccupata per il loro benessere, sapeva come incoraggiare le persone».
In molti nel suo villaggio – che si trova nella regione di Ivano-Frankivsk – continuano a conservare un bel ricordo di lei. «Marianna è cresciuta qui, è andata a scuola, poi ha lavorato in un ospedale locale, faceva il medico – precisa un suo conoscente al sito ucraino news.obozrevatel.com -. Circa 14 anni fa è andata a vivere e lavorare in Italia. Le sue due sorelle e la madre vivono lì, mentre suo fratello in Germania». In base a quanto riportano alcuni media ucraini, il corpo della giovane sarà presto consegnato e sepolto nella sua terra natale.
(da agenzie)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
SERVO DI PUTIN, DISTRUTTORE DELL’AMAZZONIA, NO VAX, NOSTALGICO DEL REGIME MILITARE, FAUTORE DELLO STERMINIO DEGLI INDIOS, BOLSONARO E’ IL TIPICO CRIMINALE SOVRANISTA
Lo chiamano il Paese verde-oro, dai colori della bandiera. E in effetti in pochi altri luoghi al mondo la difesa del verde vale quanto l’oro. Perché il 60 per cento dell’Amazzonia si trova in Brasile. La più grande foresta pluviale della Terra custodisce il 20 per cento delle acque dolci e il 70 per cento della biodiversità di tutto il nostro Pianeta. Immagazzina 123 miliardi di tonnellate di carbonio. E di tutte le specie d’alberi presenti in natura, più d’un quinto cresce qui.
Preservare il Brasile è una questione d’equilibrio della Terra. Dunque è un affare anche nostro sapere chi governerà questo immenso polmone verde.
Bolsonaro contro Lula
Il 2 ottobre si vota: 156 milioni di brasiliani sceglieranno il loro trentanovesimo presidente. Dal 1988, quando finì il ventennio della dittatura militare, è la nona volta. Ma in un Paese che pure ha vissuto una storia fatta di golpe e d’impeachment presidenziali, non s’era mai visto uno scontro così duro fra i due principali candidati: il presidente uscente Jair Bolsonaro, di destra, che alcuni sondaggi danno al 38, contro l’ex presidente di sinistra Luiz Inàcio Lula de Silva, semplicemente Lula, al 51. Per vincere serve il 50 per cento più uno dei voti, ma in corsa ci sono anche un candidato laburista accreditato al 5 per cento e un conservatore, al 3. L’eventuale ballottaggio è fissato al 30 ottobre.
Due visioni del mondo
Bolsonaro, 67 anni, tre matrimoni e cinque figli – uno dei quali è stato il parlamentare più votato nella storia del Brasile – è un ex capitano dell’esercito che elogia i bei tempi della giunta dei generali e ha nominato ministri otto militari.
Lula è un ex sindacalista che al governo portò pure qualche nostalgico della rivoluzione russa. Dai diritti Lgbt all’uso delle armi, dall’assistenza sociale alla tortura, i due sono divisi su tutto. Lula rinfaccia a Bolsonaro, che s’è dichiarato no-vax e negazionista, d’avere causato oltre 660 mila morti di Covid con le sue «scelte genocide». Bolsonaro accusa Lula, finito in carcere per una storia di tangenti, di nepotismo e d’avere guidato «il governo più corrotto della storia brasiliana». È così da anni. Ma stavolta c’è un tema più urgente d’altri, su cui si gioca la sfida: la difesa dell’ambiente.
Cancellati 3,7 milioni di ettari di foresta
Bolsonaro durante un comizio, nella campagna elettorale del 2018, fu accoltellato e rischiò di morire. Nei suoi quattro anni di presidenza s’è battuto per i tagli delle tasse, per le privatizzazioni delle imprese di Stato, per la liberalizzazione dei servizi sociali. Molto vicino ai superconservatori americani, ha fatto capire che in caso di sconfitta è pronto a denunciare i brogli con una «marcia su Brasilia» simile all’assalto al Campidoglio di Washington, quello di chi contestava l’elezione di Biden.
All’inizio della guerra in Ucraina s’è schierato con Putin ed è tutt’ora contro le sanzioni alla Russia, è amico dell’ungherese Orban. In Italia il 1 novembre 2021 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dalla giunta leghista di Anguillara Veneta per via delle sue lontane discendenze padovane.
È soprannominato «il Trump dei tropici» e le sue posizioni spiegano il perché: in soli quattro anni da presidente, Bolsonaro ha cancellato 3,725 milioni di ettari d’Amazzonia, lo 0,7 dell’intera superficie. L’anno scorso, il peggiore, è sparita una parte di foresta grande tredici volte New York. E dalle foto satellitari dell’Istituto nazionale di ricerca spaziale risulta che nell’ultimo decennio la deforestazione è aumentata del 75 per cento, mentre gli incendi, sia di origine dolosa che innescati dal cambiamento climatico, in questi nove mesi del 2022 sono stati di più che in tutto il 2021.
«Un errore non sterminare gli indios»
Il presidente uscente s’è sempre schierato contro i 200 gruppi indigeni della foresta – una volta ha detto che fu un grave errore non averli sterminati come gli indiani d’America – e ha mantenuto la sua promessa di «non concedere loro nemmeno un centimetro di terra».
Adesso in Amazzonia prosperano trafficanti di droga, minatori illegali, allevamenti selvaggi, caccia senza controllo. L’ong Earthsight ha denunciato come le due più grandi aziende brasiliane che esportano soia nell’Unione europea, la Bunge e la Cargill, facciano affari su immense aree disboscate che fino a cinquant’anni fa appartenevano agli indigeni Guarani Kaiowa.
Nel 2010, i giudici brasiliani hanno stabilito il diritto dei Kaiowa di tornare nelle loro terre, ma il governo non ha mai applicato la sentenza. Bolsonaro è contrario agli accordi di Parigi per ridurre il riscaldamento globale, ha abolito il ministero dell’Ambiente, vorrebbe rivedere l’articolo 231 della Costituzione che riconosce i diritti degli indios, non vuole vincoli per chi costruisce centrali idroelettriche sui fiumi amazzonici o sfrutta le miniere in aree protette, sogna un’autostrada che attraversi l’Amazzonia. La sua campagna elettorale è finanziata dai fazendeiros, i latifondisti che in Brasile danno lavoro a 20 milioni di famiglie, rappresentano il 24 per cento del Pil, sono una potente lobby che controlla quasi il 40 per cento del Parlamento.
Il favorito resta Lula
Ha dieci anni più dell’avversario, da bambino faceva il lustrascarpe, da giovane operaio perse il mignolo d’una mano in una pressa e ha una storia tutta nei sindacati. Due mogli, quattro figli, ha sposato la sociologa che l’ha assistito in carcere. Quand’era presidente, fra il 2003 e il 2011, gli contestarono d’avere messo vecchi trotzkisti al ministero delle Finanze e alla Banca centrale, facendo precipitare il Real e la borsa. E i suoi toni sono spesso giudicati estremisti, come quando s’oppose all’estradizione in Italia del terrorista rosso Cesare Battisti.
Il settimanale The Economist lo ha descritto però «ideologo in patria e negoziatore pragmatico all’estero»: è riuscito ad avere buoni rapporti sia col populista venezuelano Hugo Chavez, sia col presidente americano George W. Bush.
Ha varato senza troppo successo campagne per la lotta alla fame, in un Paese dove dieci milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno, e per l’istruzione dei più poveri (un brasiliano su dieci è analfabeta). Nei suoi anni al potere, ha fatto volare la finanza e portato il Brasile nel gruppo dei Paesi con Pil in maggiore crescita, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Il Pil procapite dei brasiliani è aumentato di 8.447 dollari.
Condannato e poi assolto
Lula è stato incarcerato e condannato due volte per avere ricevuto tangenti dall’ente petrolifero Petrobras. S’è sempre proclamato innocente e ha accusato il suo primo giudice, poi nominato da Bolsonaro ministro della Giustizia, d’avere complottato: «Sono stato arrestato perché tu potessi essere eletto presidente al mio posto!» ha rinfacciato all’avversario nell’ultimo faccia a faccia tv.
Al termine del processo, Lula è stato assolto e dopo 580 giorni di prigione s’è potuto ripresentare alle elezioni. I suoi avversari l’accusano d’usare le politiche sociali per controllare i voti delle fasce più deboli. Lula ha sempre unito le politiche sul welfare ai temi ambientali: nei suoi otto anni di presidenza la deforestazione dell’Amazzonia s’è ridotta dell’80 per cento, e i fazendeiros lo odiano per le sue politiche in difesa dei contadini e degli indios.
In campagna elettorale Lula ha detto che un effetto collaterale della guerra in Ucraina è quello d’avere fatto dimenticare la lotta al cambiamento climatico, e di favorire le politiche di politici come Bolsonaro che, pubblicamente, ha esortato i fazendeiros ad appiccare gli incendi nella foresta amazzonica e gli imprenditori a violare i divieti sulle emissioni.
A settembre l’inquinamento in Brasile è risultato il più alto degli ultimi vent’anni. Fu alla Conferenza Onu sull’ambiente di Rio de Janeiro, nel 1992, che per la prima volta s’elaborò il concetto di sviluppo sostenibile. Trent’anni dopo, a novembre, al Cairo si terrà la Conferenza Cop27 sul clima. Bolsonaro ha già detto che, se sarà rieletto, non ci andrà.
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
IL TOTOMINISTRI NEL GOVERNO DEL MUSEO DELLE CERE
L’incontro tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini è servito a calmare le acque. Dopo i retroscena che raccontavano i maldipancia di Fratelli d’Italia sugli incarichi del Capitano, è arrivata la rassicurazione della neo-premier in pectore. Non c’è nessun veto sul suo nome nel nuovo governo. Ma intanto il totoministri rischia di trasformarsi in un toto-Salvini. Perché il leader della Lega alza il prezzo.
E se non riuscirà a tornare al Viminale a causa del processo Open Arms (e perché Mattarella agli Interni preferisce un tecnico), allora è pronto a fare come Di Maio nel governo gialloverde.
Ovvero a bere l’amaro calice di portarsi a casa due incarichi. Quello di vicepremier insieme ad Antonio Tajani. E un ministero a scelta. Le ipotesi che si fanno oggi sono due: l’Agricoltura o le Infrastrutture.
Il Capitano dove lo metto?
Andiamo con ordine. Ieri circolava la voce che la Lega avesse minacciato l’appoggio esterno al governo Meloni senza Viminale per il suo segretario. Il Carroccio ha smentito tutto. Ma i giornali raccontano che il colloquio tra i due non è stato idilliaco. Perché Meloni insiste sul no al Viminale. In cambio propone l’incarico a un altro leghista (l’ex sottosegretario agli Interni Nicola Molteni). Oppure a Matteo Piantedosi, prefetto di Roma nominato da Lamorgese ma anche ex capo di gabinetto dello stesso Salvini. Oppure ancora a Giuseppe Pecoraro, che però è stato eletto nelle liste di Fdi.
Sullo sfondo ci sono anche i timori sulle simpatie putiniane del Capitano. Perché, spiega oggi un retroscena di Repubblica, dopo il riconoscimento di Zelensky la nuova premier non vuole errori sul fronte Nato. E perché c’è ancora qualche paura che riguarda i “pupazzi prezzolati” evocati da Draghi. Salvini, così come Crosetto e altri, ha incitato il premier a fare i nomi. Ricevendo in cambio un silenzio tombale.
Nel frattempo il dossier dell’amministrazione Usa sui soldi di Putin ai partiti dell’Occidente preoccupa. Perché nonostante le rassicurazioni il sospetto è che la Lega e Salvini in qualche modo siano citati. Per l’affare del Metropol che ha coinvolto Gianluca Savoini. Anche se gli Stati Uniti hanno fatto sapere che per ora terranno secretati i nomi. Per questo Meloni vorrebbe tenerlo fuori dal governo.
Tanto, racconta il quotidiano, da essere arrivata a offrirgli la seconda carica dello Stato. Ma la presidenza del Senato sarebbe sconsigliata per Salvini per gli stessi motivi del Viminale: cosa succederebbe in caso di condanna per sequestro di persona?
Interni, agricoltura, infrastrutture
E allora ecco la controproposta del Capitano. O il Viminale, oppure lo schema dei vicepremier con Tajani. Ma anche il ministero della Giustizia per Giulia Bongiorno. Con in più, aggiunge oggi Il Fatto Quotidiano, una delega per una seconda fascia. L’opzione preferita è quella delle Infrastrutture.
Da lì passano i fondi del Pnrr e Salvini può essere l’alfiere delle Grandi Opere da sbloccare. A partire dal ponte sullo Stretto di Messina già evocato in campagna elettorale. Altrimenti, spiega oggi La Stampa, il Capitano potrebbe gradire un incarico all’Agricoltura. Si tratta di un dicastero caro alla Lega. Che ha già lasciato un ricordo indelebile in Europa con le quote-latte. Anche qui ci sono molti fondi del Recovery Plan da distribuire.
E c’è la possibilità di viaggiare, andare sul territorio, fare politica. Come piace al Capitano. Un’altra opzione sono gli Affari Regionali. Che permetterebbero in prospettiva di lavorare sull’autonomia cara alle regioni del Nord che hanno voltato le spalle al Carroccio.
Lo schema del totoministri
Lo schema di partenza di Meloni per la spartizione delle poltrone ministeriali prevede una divisione precisa. L’Economia andrà a un tecnico. Gli altri quattro ministeri importanti (Interni, Esteri, Difesa, Giustizia) saranno divisi in base ai risultati delle elezioni. Uno andrà alla Lega, uno a Forza Italia e due al suo partito.
Per Fi e Lega si prepara anche la presidenza della Camera e del Senato. Con Tajani e Roberto Calderoli in pole position. E sarebbe anche un modo per compensare anche il partito di Berlusconi che invece avrebbe mire su un ministero pesante come la Farnesina.
Per Fi dovrebbero entrare nella squadra anche Licia Ronzulli e Anna Maria Bernini. L’idea, se Tajani non dovesse fare il ministro degli Esteri, è quella di Elisabetta Belloni con Giulio Terzi di Sant’Agata come vice. Per via XX Settembre l’agenzia di stampa Ansa riferisce di rumors danno come ipotesi quella che al Mef possa restare Daniele Franco come messaggio anche di rassicurazione all’esterno su conti e gestione dei fondi per il Pnrr.
Il ministero potrebbe essere spacchettato con Maurizio Leo alle Finanze. Nei desiderata di Fdi c’è sempre Fabio Panetta, ora nel board della Bce. Ma in quel caso senza dividere il dicastero. E gira anche la voce di un ritorno di Domenico Siniscalco. Al Mise c’è invece l’idea di lasciare Giancarlo Giorgetti. Ma l’ipotesi non piace proprio alla Lega.
Gli altri nomi
E ancora. Bongiorno potrebbe essere dirottata alla Pubblica Amministrazione se perdesse il duello con Carlo Nordio per la Giustizia. Il Welfare andrebbe a Luca Ricolfi, uno dei tecnici invitati dalla Meloni alla conferenza programmatica del partito.
Marcello Pera prenderebbe il dicastero delle Riforme, mentre Maurizio Lupi andrebbe ai rapporti con il Parlamento. Letizia Moratti viene data in pole alla Sanità. Anche se lei continuerebbe a resistere per candidarsi alle regionali in Lombardia.
Raffaele Fitto è un altro candidato per gli Affari Europei. Fabio Rampelli potrebbe finire ai Beni Culturali o all’Ambiente. Mentre Ignazio La Russa è in corsa con Fazzolari per il posto di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
(da agenzie)
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Settembre 29th, 2022 Riccardo Fucile
CI VOLEVA LA DESTRA ASOCIALE PER TOGLIERE AI POVERI PER INGRASSARE I RICCHI
Il reddito di cittadinanza non va abolito. Bisogna applicarlo meglio. In tutte le zone d’Italia. Mentre la premier Giorgia Meloni studia come cambiare il sussidio, arriva dall’Europa un monito inedito.
A parlare in un’intervista a La Stampa è Nicolas Schmit, lussemburghese e commissario al lavoro. «Io credo che il reddito di cittadinanza corrisponda più o meno allo schema che proponiamo noi perché prevede l’integrazione nel mercato del lavoro. Dopodiché ci sono anche quelli che pensano che il reddito universale incondizionato sia la soluzione. Dare una somma ai cittadini e dire: “Fatene ciò che volete”, a prescindere dal fatto che lavorino o meno. Ci sono stati esperimenti simili in Canada e in Finlandia. Ma queste esperienze non hanno portato risultati. Io sono assolutamente contrario».
Nicolas Schmidt e il sussidio
«Ciò che proponiamo noi è diverso. Il reddito minimo deve esser parte di politiche sociali attive più ampie. Può funzionare solo se ti prendi cura delle persone», sostiene Schmit nel colloquio con Marco Bresolin.
Per il commissario l’abolizione del reddito di cittadinanza proposta da Fdi non è la soluzione: «Ma se lo aboliamo poi che si fa? Che facciamo con chi non ha alcun reddito? Li mandiamo tutti dalla parrocchia? Non va abolito. Ma ciò che è importante è che sia legato a politiche di accompagnamento e di inclusione nel mercato del lavoro».
Infine, sugli imprenditori che si lamentano perché non trovano addetti e incolpano il reddito: «Si tratta di una questione che abbiamo affrontato nella nostra raccomandazione. Su questo io sono estremamente schietto perché credo che la gente sia molto razionale. Se uno inizia a lavorare, anche per un periodo limitato, e questo gli fa perdere il suo reddito minimo, a un certo punto si interroga: perché devo andare a lavorare? Credo che serva un approccio molto più flessibile: lo stipendio deve poter essere cumulato, almeno per un certo periodo. Questo sarebbe un incentivo ad accettare un lavoro e probabilmente a mantenerlo».
(da agenzie)
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